ROMA (Reuters) - sabato, 30 agosto 2008 9.26
Gli italiani: simpatici e affettuosi, ma diffidenti e incapaci di collaborare, forse anche razzisti. Difetti da curare, fenomeni che bisogna imparare a evitare, come si impara a non rubare e a non uccidere.
Sono queste alcune delle riflessioni che Luca Cavalli Sforza, genetista di fama mondiale, ha affidato a "Italiani di Frontiera" (www.italianidifrontiera.com) - progetto multimediale dedicato a scienziati, ricercatori e imprenditori italiani della Silicon Valley, cuore dell'hi tech mondiale a sud di San Francisco - proprio nei giorni in cui lascia dopo 35 anni l'Università di Stanford, California, dove è professore emerito, per trasferirsi definitivamente in Italia, a Milano, dove insegna con il figlio Francesco all'Università Vita-Salute San Raffaele.
"Torno in Italia per vari motivi personali, poi in fondo l'Italia e' un Paese bello, si mangia bene, la gente e' simpatica e spesso affettuosa", ha detto sforza Cavalli.
"Purtroppo in Italia non siamo capaci di collaborare, di fare quello in cui gli inglesi sono così bravi, che e' il gioco di squadra. Gli inglesi hanno inventato quasi tutti gli sport popolari che sono giochi di squadra, in Italia non sappiamo farlo, non ci fidiamo, non siamo abituati a fidarci degli altri. E questi sono difetti che bisognerebbe riuscire a curare".
Nato a Genova 86 anni fa, Cavalli Sforza ha contribuito, con i suoi studi nel campo della genetica di popolazione, a togliere ogni fondamento scientifico alle tesi razziste, esaminando in particolare il fenomeno della deriva genetica, cioè della fluttuazione casuale della frequenza dei geni da una generazione all'altra.
"Le differenze per cui siamo bianchi o neri sono un po' stupide, non hanno nessuna importanza, magari perché noi mangiavamo grano in cui non c'è abbastanza vitamina D. Mentre le grandi differenze sono tra individui che compongono una qualunque popolazione", ricorda il professore a proposito dei suoi studi.
E riferendosi al nostro paese, ha aggiunto: "Siamo anche razzisti? Forse sì, ma il razzismo è un fenomeno universale. Bisogna imparare a evitarlo, come si impara a non rubare e non uccidere".
Nella sua lunga riflessione sulla sua carriera, l'Università, il paese che ha lasciato e quello in cui ha deciso di tornare, lo scienziato ha anche ribadito le proprie critiche al sistema dei concorsi nelle nostre Facoltà, che a suo giudizio non premia i più meritevoli ma gli allievi più vicini ai docenti.
"Se mettiamo in cattedra i nostri allievi perché continuino le nostre idee, le Università si fermano. Perché in questo modo non si portano novità ma roba vecchia, mentre bisogna accettare le idee nuove dimenticando quelle vecchie", ha affermato, aggiungendo che forse per le Università italiane il metodo migliore sarebbe che nei concorsi fossero dei professori stranieri a scegliere i nostri".
domenica 31 agosto 2008
Parkinson: farmaco interviene negli stadi precoci
Articolo pubblicato su: www.sanihelp.it
a cura di Roberta Camisasca
Fonte: Boehringer Ingelheim
Al 12° Congresso European Federation of Neurological Sciences (EFNS), tenutosi a Madrid dal 23 al 26 agosto 2008, sono stati presentati i dati degli ultimi studi con il farmaco pramipexolo nella cura della Malattia di Parkinson (MP): i benefici clinici del trattamento precoce della MP, la gestione dei sintomi depressivi legati alla Malattia di Parkinson e la nuova formulazione di pramipexolo a lento rilascio, attualmente in studio.
Si è parlato di un nuovo approccio per valutare il rallentamento della progressione clinica nella Malattia di Parkinson.
PROUD è il primo studio che confronta i risultati clinici del trattamento in un paziente con Malattia di Parkinson con la densità dei trasportatori di dopamina in alcune aree del cervello, attraverso un braccio di trattamento parallelo allo studio, valutato con SPECT, tomografia computerizzata a emissione di fotoni singoli.
Attualmente, la cura dovrebbe iniziare quando i sintomi si manifestano.
Ma lo studio PROUD potrebbe confermare l’importanza di trattare precocemente la malattia per riuscire a rallentarne il decorso.
I risultati dello studio dovrebbero essere disponibili nel 2009.
Un altro studio su pramipexolo, condotto in circa 70 centri europei, mira a valutare la gestione dei sintomi depressivi nei pazienti affetti da MP, sintomi spesso poco riconosciuti e conseguentemente poco curati. I dati emersi suggeriscono un positivo effetto di pramipexolo sui sintomi depressivi associati alla MP, oltre all’efficace controllo sui sintomi motori.
Il profilo recettoriale di pramipexolo potrebbe essere responsabile delle possibili proprietà antidepressive di questa molecola, e la ricerca clinica in corso sta studiando nel dettaglio questo aspetto di pramipexolo.
All’EFNS sono stati infine presentati i risultati positivi degli studi di farmacocinetica, fase I, della nuova formulazione giornaliera di pramipexolo e relativo sviluppo clinico di questa nuova formulazione.
a cura di Roberta Camisasca
Fonte: Boehringer Ingelheim
Al 12° Congresso European Federation of Neurological Sciences (EFNS), tenutosi a Madrid dal 23 al 26 agosto 2008, sono stati presentati i dati degli ultimi studi con il farmaco pramipexolo nella cura della Malattia di Parkinson (MP): i benefici clinici del trattamento precoce della MP, la gestione dei sintomi depressivi legati alla Malattia di Parkinson e la nuova formulazione di pramipexolo a lento rilascio, attualmente in studio.
Si è parlato di un nuovo approccio per valutare il rallentamento della progressione clinica nella Malattia di Parkinson.
PROUD è il primo studio che confronta i risultati clinici del trattamento in un paziente con Malattia di Parkinson con la densità dei trasportatori di dopamina in alcune aree del cervello, attraverso un braccio di trattamento parallelo allo studio, valutato con SPECT, tomografia computerizzata a emissione di fotoni singoli.
Attualmente, la cura dovrebbe iniziare quando i sintomi si manifestano.
Ma lo studio PROUD potrebbe confermare l’importanza di trattare precocemente la malattia per riuscire a rallentarne il decorso.
I risultati dello studio dovrebbero essere disponibili nel 2009.
Un altro studio su pramipexolo, condotto in circa 70 centri europei, mira a valutare la gestione dei sintomi depressivi nei pazienti affetti da MP, sintomi spesso poco riconosciuti e conseguentemente poco curati. I dati emersi suggeriscono un positivo effetto di pramipexolo sui sintomi depressivi associati alla MP, oltre all’efficace controllo sui sintomi motori.
Il profilo recettoriale di pramipexolo potrebbe essere responsabile delle possibili proprietà antidepressive di questa molecola, e la ricerca clinica in corso sta studiando nel dettaglio questo aspetto di pramipexolo.
All’EFNS sono stati infine presentati i risultati positivi degli studi di farmacocinetica, fase I, della nuova formulazione giornaliera di pramipexolo e relativo sviluppo clinico di questa nuova formulazione.
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giovedì 28 agosto 2008
DEDICATO alle NEO - MAMME ed ai NEO-GENITORI
Il 26 agosto 1957 iniziavo questo mio viaggio terreno e ricordandomi delle fasi iniziali del mio essere nel mondo, vorrei dedicare questa serie di articoli a tutte le madri che si apprestano a partorire o ai genitori che si trovano già un bebè da accudire. Naturalmente ai neonati un grande BENVENUTO di incoraggiamento....
Le prime cure del neonato:la medicazione del moncone ombelicale
a cura di naturopataonline
La cosa che angoscia maggiormente i neo genitori a casa è il cordone ombelicale !
Lo scopo del cordone ombelicale è finito con la nascita; ora per avere un vero ombelico bisogna che il moncone si stacchi dalla pancia del nostro piccolo.
Cos'è il Cordone ombelicale e da cosa è formato
Il cordone ombelicale è formato da gelatina (gelatina di Worthon), più o meno spessa e lunga circa 50 cm, che racchiude e protegge 1 vena e 2 arterie che sono servite durante la gravidanza per dare sostentamento e smaltire i cataboliti del feto che però ora è un bimbo !
La parte più lunga del cordone ombelicale è stata espulsa dalla mamma con il secondamento; la parte finale è ancora attaccata al piccolo, a volte correlato di una molletta (cord clamp).
Non tutti i monconi ombelicali “cadono” nello stesso momento; il tempo è ragionevole sino ai 10-12 giorni, per cui abbiate pazienza e prendetevene cura !
Quando e come eseguire la medicazione del moncone ombelicale.
La medicazione si deve eseguire almeno una volta al giorno, ma anche più volte se il nostro piccolo ci fa la pipì sopra !
Il materiale occorrente è: alcool, garza sterile e rete elastica.
L'obiettivo è fare seccare il moncone perché si stacchi, un po’ come avverrà fra qualche anno con i dentini…prima o poi cadono ed è possibile che esca qualche goccia di sangue.
Dunque quando si medica il moncone bisogna avere l’accortezza di pulire bene alla base, dove si attacca al pancino, perché poi è lì che se non è ben pulito si infiamma e si forma il pus, ma se saremo bravi e lo puliremo tutti i giorni non succederà !
Medicazione prima del distacco del cordone ombelicale.
Pulire bene con una garza imbevuta di alcool e controllare se rimane pulita o se si sporca un pochino: una crosticina giallastra, poca, e secrezione tipo sierosa sono normali, a volte anche una gocciolina di sangue ci annuncia che una parte della base del cordone si sta staccando.
Una volta pulito bene si riavvolge con una garza asciutta e si fissa con la rete elastica.
Dicevo che almeno una volta al giorno si deve fare la medicazione, di solito quando si fa il bagnetto, ma se cambiando il pannolino vi accorgete che la medicazione è bagnata, rifatela ancora ed ancora !!!
Medicazione dopo il distacco del moncone ombelicale.
Quando cade il moncone la medicazione che andrà fatta si modifica un pochino: ora dovremo usare acqua ossigenata, polvere di cicatrene ( un po' di antibiotico in questo caso ci vuole!), garze sterili e rete elastica.
Puliremo bene la base con una garza imbevuta di acqua ossigenata, possiamo lasciare agire l'acqua ossigenata da sola osservando la caratteristica effervescenza;
Asciughiamo bene e applichiamo una spruzzata di cicatrene, quindi chiudiamo con la garza e la rete.
Con questa medicazione si formerà una crosticina che poi verrà via e forse ancora un’altra che poi cadrà….quando non si formano più crosticine e la cute sarà rosea…siamo stati bravi e abbiamo finito !
La cosa che angoscia maggiormente i neo genitori a casa è il cordone ombelicale !
Lo scopo del cordone ombelicale è finito con la nascita; ora per avere un vero ombelico bisogna che il moncone si stacchi dalla pancia del nostro piccolo.
Cos'è il Cordone ombelicale e da cosa è formato
Il cordone ombelicale è formato da gelatina (gelatina di Worthon), più o meno spessa e lunga circa 50 cm, che racchiude e protegge 1 vena e 2 arterie che sono servite durante la gravidanza per dare sostentamento e smaltire i cataboliti del feto che però ora è un bimbo !
La parte più lunga del cordone ombelicale è stata espulsa dalla mamma con il secondamento; la parte finale è ancora attaccata al piccolo, a volte correlato di una molletta (cord clamp).
Non tutti i monconi ombelicali “cadono” nello stesso momento; il tempo è ragionevole sino ai 10-12 giorni, per cui abbiate pazienza e prendetevene cura !
Quando e come eseguire la medicazione del moncone ombelicale.
La medicazione si deve eseguire almeno una volta al giorno, ma anche più volte se il nostro piccolo ci fa la pipì sopra !
Il materiale occorrente è: alcool, garza sterile e rete elastica.
L'obiettivo è fare seccare il moncone perché si stacchi, un po’ come avverrà fra qualche anno con i dentini…prima o poi cadono ed è possibile che esca qualche goccia di sangue.
Dunque quando si medica il moncone bisogna avere l’accortezza di pulire bene alla base, dove si attacca al pancino, perché poi è lì che se non è ben pulito si infiamma e si forma il pus, ma se saremo bravi e lo puliremo tutti i giorni non succederà !
Medicazione prima del distacco del cordone ombelicale.
Pulire bene con una garza imbevuta di alcool e controllare se rimane pulita o se si sporca un pochino: una crosticina giallastra, poca, e secrezione tipo sierosa sono normali, a volte anche una gocciolina di sangue ci annuncia che una parte della base del cordone si sta staccando.
Una volta pulito bene si riavvolge con una garza asciutta e si fissa con la rete elastica.
Dicevo che almeno una volta al giorno si deve fare la medicazione, di solito quando si fa il bagnetto, ma se cambiando il pannolino vi accorgete che la medicazione è bagnata, rifatela ancora ed ancora !!!
Medicazione dopo il distacco del moncone ombelicale.
Quando cade il moncone la medicazione che andrà fatta si modifica un pochino: ora dovremo usare acqua ossigenata, polvere di cicatrene ( un po' di antibiotico in questo caso ci vuole!), garze sterili e rete elastica.
Puliremo bene la base con una garza imbevuta di acqua ossigenata, possiamo lasciare agire l'acqua ossigenata da sola osservando la caratteristica effervescenza;
Asciughiamo bene e applichiamo una spruzzata di cicatrene, quindi chiudiamo con la garza e la rete.
Con questa medicazione si formerà una crosticina che poi verrà via e forse ancora un’altra che poi cadrà….quando non si formano più crosticine e la cute sarà rosea…siamo stati bravi e abbiamo finito !
Il pianto dei bambini : qualche idea per calmarlo
di: Johann Rossi Mason
Chiunque debba affrontare il pianto di un neonato prima o poi si chiederà se non esista una formula magica per farlo smettere. Dopo aver tentato tutto o quasi, dopo aver dato biberon, cambiato pannolino, cullato, cantato, abbracciato, il livello di sopportazione tende a diminuire in maniera inversamente proporzionale alla durata del pianto. Per non parlare della frustrazione di un genitore che non riesce a calmare il proprio bambino.
Si é messo a studiare possibili soluzioni il professor dell’Università della California Harvey Karp, pediatra ed autore di un libro di pediatria che sta riscuotendo un grande successo negli Stati Uniti. A noi alcuni rimedi sono sembrati un po’ datati ma Karp garantisce che siano efficaci. Non ci rimane quindi che provare a metterli in pratica e sperare che la scienza sia più affidabile dell’istinto. Non dimentichiamo però che il pianto è un modo del tutto normale per comunicare le sue emozioni e i suoi bisogni e quindi invece di limitarci a farlo smettere dovremmo imparare a ‘decodificarlo’.
Karp sostiene che i neonati subiscano un vero e proprio ‘sfratto’ dall’utero materno, vissuto come caldo e sicuro e che ciò avviene quando hanno ancora bisogno di essere carezzati e contenuti dal grembo materno che attutisce anche i rumori circostanti. Il pianto quindi alcune volte è il risultato di un senso di perdita, sia del rumore costante del battito cardiaco della madre, sia degli stimoli ormonali presenti nell’utero. Gli stimoli del mondo esterno sono molto diversi ed è normale che il neonato vi reagisce in maniera intensa, come a tutto ciò che gli è estraneo.
Studi passati hanno mostrato che in media i bambini di sei settimane trascorrono a piangere circa 3 ore e mezza al giorno (certo non di seguito) a causa di difficoltà nell’accudimento da parte dei genitori, stress coniugale e depressione post partum. Per molti anni poi si è pensato che le famigerate coliche infantili fossero provocate da problemi gastrointestinali, ma ciò non è sempre vero. Sembrano invece – a detta del professor Karp – associate al temperamento del neonato, agli stimoli ambientali e all’immaturità del sistema nervoso.
Il metodo proposto dal pediatra americano sembra abbia il potere di calmare i bambini più irrequieti ricorrendo a 5 strategie:
1 – Fasciatura – Avvolgere saldamente ma senza stringere il bambino in una copertina calda, imita la sensazione di calore e protezione dell’utero materno. Fermare i movimenti incontrollati di braccia e gambe aiuta a controllare il pianto eccessivo. Il contenimento per diverse ore al giorno rende i neonati più calmi. Una usanza ben nota alle nostre nonne e che per alcuni versi poteva sembrare una barbara costrizione.
2 – Tenere il bambino a pancia in giù quando è sveglio. Gli esperti sostengono che in questa posizione non percepiscono la sensazione di cadere nel vuoto. Al contrario mai tenerli sulla pancia quando dormono.
3 – All’interno dell’utero vi è un costante suono frusciante, simile ad un sibilo: è il sangue della madre che viaggia nelle arterie. Si può ricreare un rumore simile con CD che suggeriscono rumori di ruscello o con un phon a bassa velocità.
4 – Cullare – I neonati adorano i movimenti ritmici, cullanti, come quello del passeggino o dell’automobile.
5 – Succhiare – tenere occupata la bocca con l’attività che gli è più congeniale e naturale, la suzione. Allo scopo va bene il ciuccio, il biberon o il capezzolo della madre. Si è visto che i neonati si succhiano il pollice anche durante la vita fetale e che succhiare non è un “vizio” ma una necessità vitale: i neonati che non hanno lo stimolo evolutivo della suzione rischiano di morire. Succhiare per un neonato è consolatorio, lo calma, lo rassicura.
A proposito della fasciatura, gli esperti sostengono che i neonati saldamente fasciati potrebbero piangere di più ma basta dondolarli dolcemente sostenendone la testa che si ottiene un immediato effetto calmante. I bambini infatti trovano irresistibili suoni e movimenti ripetitivi e ipnotici. Piccole strategie che vanno sperimentate dato che per un genitore nulla è più struggente (a in alcuni momenti snervante) del non riuscire a calmare il proprio bambino che piange. Parola… di mamma.
Chiunque debba affrontare il pianto di un neonato prima o poi si chiederà se non esista una formula magica per farlo smettere. Dopo aver tentato tutto o quasi, dopo aver dato biberon, cambiato pannolino, cullato, cantato, abbracciato, il livello di sopportazione tende a diminuire in maniera inversamente proporzionale alla durata del pianto. Per non parlare della frustrazione di un genitore che non riesce a calmare il proprio bambino.
Si é messo a studiare possibili soluzioni il professor dell’Università della California Harvey Karp, pediatra ed autore di un libro di pediatria che sta riscuotendo un grande successo negli Stati Uniti. A noi alcuni rimedi sono sembrati un po’ datati ma Karp garantisce che siano efficaci. Non ci rimane quindi che provare a metterli in pratica e sperare che la scienza sia più affidabile dell’istinto. Non dimentichiamo però che il pianto è un modo del tutto normale per comunicare le sue emozioni e i suoi bisogni e quindi invece di limitarci a farlo smettere dovremmo imparare a ‘decodificarlo’.
Karp sostiene che i neonati subiscano un vero e proprio ‘sfratto’ dall’utero materno, vissuto come caldo e sicuro e che ciò avviene quando hanno ancora bisogno di essere carezzati e contenuti dal grembo materno che attutisce anche i rumori circostanti. Il pianto quindi alcune volte è il risultato di un senso di perdita, sia del rumore costante del battito cardiaco della madre, sia degli stimoli ormonali presenti nell’utero. Gli stimoli del mondo esterno sono molto diversi ed è normale che il neonato vi reagisce in maniera intensa, come a tutto ciò che gli è estraneo.
Studi passati hanno mostrato che in media i bambini di sei settimane trascorrono a piangere circa 3 ore e mezza al giorno (certo non di seguito) a causa di difficoltà nell’accudimento da parte dei genitori, stress coniugale e depressione post partum. Per molti anni poi si è pensato che le famigerate coliche infantili fossero provocate da problemi gastrointestinali, ma ciò non è sempre vero. Sembrano invece – a detta del professor Karp – associate al temperamento del neonato, agli stimoli ambientali e all’immaturità del sistema nervoso.
Il metodo proposto dal pediatra americano sembra abbia il potere di calmare i bambini più irrequieti ricorrendo a 5 strategie:
1 – Fasciatura – Avvolgere saldamente ma senza stringere il bambino in una copertina calda, imita la sensazione di calore e protezione dell’utero materno. Fermare i movimenti incontrollati di braccia e gambe aiuta a controllare il pianto eccessivo. Il contenimento per diverse ore al giorno rende i neonati più calmi. Una usanza ben nota alle nostre nonne e che per alcuni versi poteva sembrare una barbara costrizione.
2 – Tenere il bambino a pancia in giù quando è sveglio. Gli esperti sostengono che in questa posizione non percepiscono la sensazione di cadere nel vuoto. Al contrario mai tenerli sulla pancia quando dormono.
3 – All’interno dell’utero vi è un costante suono frusciante, simile ad un sibilo: è il sangue della madre che viaggia nelle arterie. Si può ricreare un rumore simile con CD che suggeriscono rumori di ruscello o con un phon a bassa velocità.
4 – Cullare – I neonati adorano i movimenti ritmici, cullanti, come quello del passeggino o dell’automobile.
5 – Succhiare – tenere occupata la bocca con l’attività che gli è più congeniale e naturale, la suzione. Allo scopo va bene il ciuccio, il biberon o il capezzolo della madre. Si è visto che i neonati si succhiano il pollice anche durante la vita fetale e che succhiare non è un “vizio” ma una necessità vitale: i neonati che non hanno lo stimolo evolutivo della suzione rischiano di morire. Succhiare per un neonato è consolatorio, lo calma, lo rassicura.
A proposito della fasciatura, gli esperti sostengono che i neonati saldamente fasciati potrebbero piangere di più ma basta dondolarli dolcemente sostenendone la testa che si ottiene un immediato effetto calmante. I bambini infatti trovano irresistibili suoni e movimenti ripetitivi e ipnotici. Piccole strategie che vanno sperimentate dato che per un genitore nulla è più struggente (a in alcuni momenti snervante) del non riuscire a calmare il proprio bambino che piange. Parola… di mamma.
mercoledì 27 agosto 2008
Neonati e coliche gassose:un aiuto dai fiori di Bach
di: Romina Marroni
È il primo disturbo della vita. Le coliche gassose (colichine) non sono una malattia, ma è possibile definirle come disturbo psicosomatico funzionale.
Per i lattanti alimentati al seno è molto probabile che le coliche siano dovute ad un eccesso di latticini nell'alimentazione materna o ad un'eccessiva ingestione di aria durante la poppata, soprattutto se il piccolo non si attacca correttamente o se ha una poppata avida ed in apnea.
I piccoli allattati artificialmente possono ingerire molta aria se non vengono usate le apposite tettarelle antibolle, oppure possono manifestare con le coliche un’intolleranza a certi tipi di latte artificiale spesso accompagnate da crisi diarroiche o stipsi.
Ultimo ma non per importanza, il dismicrobismo intestinale è causa molto frequente delle colichine; la flora batterica dell'intestino è responsabile di moltissime funzioni gastrointestinali e qualunque alterazione o, più spesso, una scarsa presenza batterica può essere causa di coliche gassose.
È importantissimo anche l'atteggiamento dei genitori: ad esempio essere troppo ansiosi per il piccolo, oppure avere uno stile di vita nel contesto familiare non adeguato al bimbo, può influenzare negativamente la serenità del neonato peggiorando il problema coliche; ricordiamoci che i neonati sono delle vere e proprie antenne sintonizzate quasi esclusivamente con la madre!
In caso di coliche gassose, insieme ai rimedi che il pediatra può prescrivere, la floriterapia consiglia di ricorrere al Rescue Remedy in crema da applicare sul pancino almeno 4 volte al giorno massaggiando delicatamente; è possibile anche aggiungere alla crema 2 gocce di Aspen e 2 gocce di Agrimony, per beneficiare del loro effetto tranquillizzante ed ansiolitico.
Alla crema di Rescue Remedy può essere abbinato anche il fiore californiano Chamomile, che ha un'azione rilassante e sedativa ed è proprio indicato per le coliche gassose ed i problemi gastrointestinali dei lattanti.
Prima di ricorrere all'uso di qualsiasi rimedio è tuttavia di fondamentale importanza chiedere conferma al proprio pediatra.
È il primo disturbo della vita. Le coliche gassose (colichine) non sono una malattia, ma è possibile definirle come disturbo psicosomatico funzionale.
Per i lattanti alimentati al seno è molto probabile che le coliche siano dovute ad un eccesso di latticini nell'alimentazione materna o ad un'eccessiva ingestione di aria durante la poppata, soprattutto se il piccolo non si attacca correttamente o se ha una poppata avida ed in apnea.
I piccoli allattati artificialmente possono ingerire molta aria se non vengono usate le apposite tettarelle antibolle, oppure possono manifestare con le coliche un’intolleranza a certi tipi di latte artificiale spesso accompagnate da crisi diarroiche o stipsi.
Ultimo ma non per importanza, il dismicrobismo intestinale è causa molto frequente delle colichine; la flora batterica dell'intestino è responsabile di moltissime funzioni gastrointestinali e qualunque alterazione o, più spesso, una scarsa presenza batterica può essere causa di coliche gassose.
È importantissimo anche l'atteggiamento dei genitori: ad esempio essere troppo ansiosi per il piccolo, oppure avere uno stile di vita nel contesto familiare non adeguato al bimbo, può influenzare negativamente la serenità del neonato peggiorando il problema coliche; ricordiamoci che i neonati sono delle vere e proprie antenne sintonizzate quasi esclusivamente con la madre!
In caso di coliche gassose, insieme ai rimedi che il pediatra può prescrivere, la floriterapia consiglia di ricorrere al Rescue Remedy in crema da applicare sul pancino almeno 4 volte al giorno massaggiando delicatamente; è possibile anche aggiungere alla crema 2 gocce di Aspen e 2 gocce di Agrimony, per beneficiare del loro effetto tranquillizzante ed ansiolitico.
Alla crema di Rescue Remedy può essere abbinato anche il fiore californiano Chamomile, che ha un'azione rilassante e sedativa ed è proprio indicato per le coliche gassose ed i problemi gastrointestinali dei lattanti.
Prima di ricorrere all'uso di qualsiasi rimedio è tuttavia di fondamentale importanza chiedere conferma al proprio pediatra.
lunedì 25 agosto 2008
Cirrosi e cancro al fegato
Individuato un ‘marcatore’
a cura del CNR
Istituto di neurobiologia e medicina molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Inmm-Cnr)
mailto:Annalucia.Serafino@ARTOV.INMM.CNR.IT
L'Inmm-Cnr di Roma ha scoperto che l'NGF, il fattore di crescita nervoso scoperto da Rita Levi Montalcini, è presente in livelli anomali nei pazienti affetti da tali patologie. Si apre così la strada per una diagnosi precoce, senza metodi invasivi e quindi per una maggiore curabilità. Lo studio è pubblicato sul World Journal of Gastroenterology
L'NGF, il fattore di crescita nervoso scoperto dal premio Nobel Rita Levi Montalcini, è presente nei malati di cirrosi e di tumore del fegato in livelli fino a 25 volte superiori al normale: potrebbe dunque essere utilizzato come marcatore di tali patologie, permettendone una diagnosi precoce e quindi una maggiore curabilità, per di più con un semplice esame del sangue e senza il ricorso alla invasiva e rischiosa biopsia. Questi i risultati di una ricerca del gruppo diretto da Annalucia Serafino dell'Istituto di neurobiologia e medicina molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Inmm-Cnr), appena pubblicati sulla rivista World Journal of Gastroenterology.
“Il tumore del fegato (epatocarcinoma) è una patologia in costante aumento, in gran parte dovuta all'evoluzione delle epatiti virali croniche B e C”, spiega la dr.ssa Serafino.
“Attualmente vi sono molte interessanti possibilità terapeutiche, il cui successo è fondamentalmente legato alla diagnosi precoce. In particolare, nell'epatite C, il processo di trasformazione in carcinoma epatico è preceduto da un periodo, anche molto lungo, di progressiva trasformazione fibrotica (cirrosi).
La diagnosi fondamentalmente si basa ancora nella biopsia, tecnica invasiva e non del tutto priva di rischi”. La disponibilità di ‘marcatori’ che seguano l'evoluzione della malattia e rivelino le fasi precoci della trasformazione neoplastica consentirebbe ovviamente enormi vantaggi.
Ecco dunque l'importanza dello studio, condotto ed eseguito dall'Inmm-Cnr in collaborazione con l'Ospedale Regina Elena, l'Ospedale di Marino e l'Università di Tor Vergata. “L'NGF è il fattore di crescita nervoso essenziale per la sopravvivenza, il differenziamento ed il mantenimento delle cellule neuronali del sistema nervoso centrale e periferico”, prosegue Annalucia Serafino, “ma può avere un ruolo sia nella riparazione tissutale del polmone e della pelle, nell'infiammazione cronica e nelle patologie fibrotiche, sia nei tumori del polmone, della prostata e della mammella. La nostra ricerca dimostra che l'NGF potrebbe essere implicato anche nello sviluppo del cancro al fegato”.
L'indagine parte dall'osservazione che campioni bioptici di pazienti con cirrosi ed epatocarcinoma mostrano alti livelli di espressione di NGF e del suo recettore trkANGF nel tessuto patologico, mentre queste due molecole non sono presenti nel fegato sano. “Inoltre, campioni ematici di tali pazienti confermano livelli di NGF insolitamente alti, circa 25 volte superiori a quelli di individui sani”, conclude la ricercatrice dell'Inmm-Cnr. “Questi dati, ottenuti da un numero limitato di campioni (20 pazienti), se confermati da una casistica più vasta e completa individuerebbero definitivamente in NGF un marcatore diagnostico e prognostico del tumore del fegato, facilmente dosabile con un semplice test del sangue. Inoltre, tale molecola potrebbe in futuro dimostrarsi un buon bersaglio per eventuali terapie antitumorali mirate”.
a cura del CNR
Istituto di neurobiologia e medicina molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Inmm-Cnr)
mailto:Annalucia.Serafino@ARTOV.INMM.CNR.IT
L'Inmm-Cnr di Roma ha scoperto che l'NGF, il fattore di crescita nervoso scoperto da Rita Levi Montalcini, è presente in livelli anomali nei pazienti affetti da tali patologie. Si apre così la strada per una diagnosi precoce, senza metodi invasivi e quindi per una maggiore curabilità. Lo studio è pubblicato sul World Journal of Gastroenterology
L'NGF, il fattore di crescita nervoso scoperto dal premio Nobel Rita Levi Montalcini, è presente nei malati di cirrosi e di tumore del fegato in livelli fino a 25 volte superiori al normale: potrebbe dunque essere utilizzato come marcatore di tali patologie, permettendone una diagnosi precoce e quindi una maggiore curabilità, per di più con un semplice esame del sangue e senza il ricorso alla invasiva e rischiosa biopsia. Questi i risultati di una ricerca del gruppo diretto da Annalucia Serafino dell'Istituto di neurobiologia e medicina molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Inmm-Cnr), appena pubblicati sulla rivista World Journal of Gastroenterology.
“Il tumore del fegato (epatocarcinoma) è una patologia in costante aumento, in gran parte dovuta all'evoluzione delle epatiti virali croniche B e C”, spiega la dr.ssa Serafino.
“Attualmente vi sono molte interessanti possibilità terapeutiche, il cui successo è fondamentalmente legato alla diagnosi precoce. In particolare, nell'epatite C, il processo di trasformazione in carcinoma epatico è preceduto da un periodo, anche molto lungo, di progressiva trasformazione fibrotica (cirrosi).
La diagnosi fondamentalmente si basa ancora nella biopsia, tecnica invasiva e non del tutto priva di rischi”. La disponibilità di ‘marcatori’ che seguano l'evoluzione della malattia e rivelino le fasi precoci della trasformazione neoplastica consentirebbe ovviamente enormi vantaggi.
Ecco dunque l'importanza dello studio, condotto ed eseguito dall'Inmm-Cnr in collaborazione con l'Ospedale Regina Elena, l'Ospedale di Marino e l'Università di Tor Vergata. “L'NGF è il fattore di crescita nervoso essenziale per la sopravvivenza, il differenziamento ed il mantenimento delle cellule neuronali del sistema nervoso centrale e periferico”, prosegue Annalucia Serafino, “ma può avere un ruolo sia nella riparazione tissutale del polmone e della pelle, nell'infiammazione cronica e nelle patologie fibrotiche, sia nei tumori del polmone, della prostata e della mammella. La nostra ricerca dimostra che l'NGF potrebbe essere implicato anche nello sviluppo del cancro al fegato”.
L'indagine parte dall'osservazione che campioni bioptici di pazienti con cirrosi ed epatocarcinoma mostrano alti livelli di espressione di NGF e del suo recettore trkANGF nel tessuto patologico, mentre queste due molecole non sono presenti nel fegato sano. “Inoltre, campioni ematici di tali pazienti confermano livelli di NGF insolitamente alti, circa 25 volte superiori a quelli di individui sani”, conclude la ricercatrice dell'Inmm-Cnr. “Questi dati, ottenuti da un numero limitato di campioni (20 pazienti), se confermati da una casistica più vasta e completa individuerebbero definitivamente in NGF un marcatore diagnostico e prognostico del tumore del fegato, facilmente dosabile con un semplice test del sangue. Inoltre, tale molecola potrebbe in futuro dimostrarsi un buon bersaglio per eventuali terapie antitumorali mirate”.
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Diagnosi per il tumore delle ovaie
di: Massimo Bertolucci
Quando il tumore alle ovaie viene diagnosticato la sua fase è ormai molto avanzata per cui anche dopo l'intervento chirurgico o il trattamento chemioterapico, i rischi di ricaduta sono molto elevati. Ora, un prestigioso panel di oncologi, del Pacific Northwest Research Institute (PNRI) di Seattle, ha messo a punto un efficace biomarcatore per diagnosticare più efficacemente la patologia.
Attualmente, si utilizza il CA125 come test per diagnosticare il tumore alle ovaie. L'efficacia del test è molto valida per l'identificazione di tumori avanzati e di ricadute in seguito alla chemioterapia. Ma inefficace per identificare la patologia nel corso delle sue prime evoluzioni. Oltretutto il test può anche dare dei risultati “falsi positivi”: identifica la presenza di un tumore che in realtà non c'è con conseguenti terapie costose e soprattutto inutili e dannose.
Con il nuovo biomarcatore invece - Secondo gli oncologi - visto che la molecola HEA, che è direttamente associata alle cellule tumorali, è secreta nel sangue, basterebbe sviluppare un semplice apposito esame del sangue per poter rilevare la sua presenza. Inoltre, si è appurato che HE4 è efficace al medesimo modo di CA125 con una sensibilità al carcinoma superiore del 40 per cento rispetto a quella di CA 125 quando non si erano palesati risultati “falsi positivi”.
Il biomarcatore è stato descritto dal periodico “Cancer Research”.
Istituzione scientifica citata nell'articolo:
http://www.pnri.org/
Quando il tumore alle ovaie viene diagnosticato la sua fase è ormai molto avanzata per cui anche dopo l'intervento chirurgico o il trattamento chemioterapico, i rischi di ricaduta sono molto elevati. Ora, un prestigioso panel di oncologi, del Pacific Northwest Research Institute (PNRI) di Seattle, ha messo a punto un efficace biomarcatore per diagnosticare più efficacemente la patologia.
Attualmente, si utilizza il CA125 come test per diagnosticare il tumore alle ovaie. L'efficacia del test è molto valida per l'identificazione di tumori avanzati e di ricadute in seguito alla chemioterapia. Ma inefficace per identificare la patologia nel corso delle sue prime evoluzioni. Oltretutto il test può anche dare dei risultati “falsi positivi”: identifica la presenza di un tumore che in realtà non c'è con conseguenti terapie costose e soprattutto inutili e dannose.
Con il nuovo biomarcatore invece - Secondo gli oncologi - visto che la molecola HEA, che è direttamente associata alle cellule tumorali, è secreta nel sangue, basterebbe sviluppare un semplice apposito esame del sangue per poter rilevare la sua presenza. Inoltre, si è appurato che HE4 è efficace al medesimo modo di CA125 con una sensibilità al carcinoma superiore del 40 per cento rispetto a quella di CA 125 quando non si erano palesati risultati “falsi positivi”.
Il biomarcatore è stato descritto dal periodico “Cancer Research”.
Istituzione scientifica citata nell'articolo:
http://www.pnri.org/
Quiete mentale e tumori
di: Donata Allegri
David Spiegel e Sandra Sephton, ricercatori del Centro Medico dell'Università di Stanford, sono stati fra i primi a individuare un possibile legame fra un benessere mentale ed un rapido recupero da un tumore.
In questo studio, pubblicato sul periodico scientifico britannico “Brain, Behaviour and Immunity”, i due studiosi americani hanno dimostrato che il sonno è un buon alleato contro il cancro.
L'Idrocortisone è un ormone importante perché regola il sistema immunitario, comprese le attività cellulari che aiutano il corpo a combattere contro il cancro. Il suo ciclo naturale comporta i massimi valori all'alba e poi un graduale abbassamento dei valori con l'andare della giornata; per questo motivo un ritmo di sonno poco regolare potrebbe sfasare il ciclo naturale dell'idrocortisone rendendo il corpo più vulnerabile al cancro.
In studi precedenti i due scienziati avevano notato che donne malate di cancro al seno il cui ciclo di idrocortisone raggiungeva i massimi livelli in pomeriggio piuttosto che all'alba a causa di ritmi di sonno disturbati, morivano prima di cancro rispetto a pazienti col sonno più regolare.
Altro ormone importante è a melatonina, che viene generato dal cervello mentre dormiamo ed è in grado di prevenire danni al DNA che potrebbero portare al cancro.
Questo ormone nelle donne ha anche il ruolo di rallentare la produzione di ormoni estrogeni che, a loro volta stimolano le cellule cancerogene nei seni e nelle ovaie a continuare a dividersi. Per questo motivo si pensa, dopo vari accertamenti, che donne che lavorano di notte siano più soggette agli effetti degli ormoni estrogeni e quindi ad ammalarsi di cancro perché producono meno melatonina.
Un altro ormone importante per la difesa dell’organismo è il cortisolo che aiuta a regolare l'attività del sistema immunitario, compresa quella di un gruppo di cellule, chiamate Natural Killer, che contribuiscono alla lotta contro il cancro. Tale ormone normalmente raggiunge livelli di picco all'alba per poi declinare durante il giorno.
Il sonno sembra importante anche per altri mammiferi: uno studio ha infatti dimostrato che i topi, se hanno i ritmi di sonno alterati, mostrano una crescita molto più rapida del tumore rispetto ai loro compagni con un ritmo di sonno più naturale.
Istituzione scientifica citata nell'articolo:
http://www-med.stanford.edu/school/
David Spiegel e Sandra Sephton, ricercatori del Centro Medico dell'Università di Stanford, sono stati fra i primi a individuare un possibile legame fra un benessere mentale ed un rapido recupero da un tumore.
In questo studio, pubblicato sul periodico scientifico britannico “Brain, Behaviour and Immunity”, i due studiosi americani hanno dimostrato che il sonno è un buon alleato contro il cancro.
L'Idrocortisone è un ormone importante perché regola il sistema immunitario, comprese le attività cellulari che aiutano il corpo a combattere contro il cancro. Il suo ciclo naturale comporta i massimi valori all'alba e poi un graduale abbassamento dei valori con l'andare della giornata; per questo motivo un ritmo di sonno poco regolare potrebbe sfasare il ciclo naturale dell'idrocortisone rendendo il corpo più vulnerabile al cancro.
In studi precedenti i due scienziati avevano notato che donne malate di cancro al seno il cui ciclo di idrocortisone raggiungeva i massimi livelli in pomeriggio piuttosto che all'alba a causa di ritmi di sonno disturbati, morivano prima di cancro rispetto a pazienti col sonno più regolare.
Altro ormone importante è a melatonina, che viene generato dal cervello mentre dormiamo ed è in grado di prevenire danni al DNA che potrebbero portare al cancro.
Questo ormone nelle donne ha anche il ruolo di rallentare la produzione di ormoni estrogeni che, a loro volta stimolano le cellule cancerogene nei seni e nelle ovaie a continuare a dividersi. Per questo motivo si pensa, dopo vari accertamenti, che donne che lavorano di notte siano più soggette agli effetti degli ormoni estrogeni e quindi ad ammalarsi di cancro perché producono meno melatonina.
Un altro ormone importante per la difesa dell’organismo è il cortisolo che aiuta a regolare l'attività del sistema immunitario, compresa quella di un gruppo di cellule, chiamate Natural Killer, che contribuiscono alla lotta contro il cancro. Tale ormone normalmente raggiunge livelli di picco all'alba per poi declinare durante il giorno.
Il sonno sembra importante anche per altri mammiferi: uno studio ha infatti dimostrato che i topi, se hanno i ritmi di sonno alterati, mostrano una crescita molto più rapida del tumore rispetto ai loro compagni con un ritmo di sonno più naturale.
Istituzione scientifica citata nell'articolo:
http://www-med.stanford.edu/school/
domenica 17 agosto 2008
IL MULTIVERSO
La teoria delle stringhe propone l'idea che tutto nell'universo, dalle più immense galassie alle particelle subatomiche, sia fatto di sottili e vibranti corde di energia. Una teoria affascinante, ma che al momento è ancora in cerca di dimostrazione.
Dal punto di vista matematico, la teoria delle stringhe suggerisce che il mondo che conosciamo non è completo, e che oltre le 4 dimensioni con cui abbiamo familiarità - il tempo e lo spazio tridimensionale - esistono sei dimensioni spaziali extra, presenti in forme geometriche occulte ad ogni singolo punto nell'universo. "Anche se gli scienziati usano potenti super-computers per cercare di visualizzare queste dimensioni extra", dice il fisico Gary Shiu, che ha condotto lo studio, "nessuno è ancora riuscito a svelarne la forma". Secondo la teoria delle stringhe, queste dimensioni extra potrebbero avere 10.000 forme possibili diverse, ognuna teoricamente corrispondente al proprio universo e alle proprie leggi fisiche. "Vorremo conoscere quella che corrisponde al nostro di universo", dice Henry Tye, fisico della Cornell University che non ha partecipato allo studio. Nel mondo fantastico delle stringhe e delle superstringhe, un mondo infinitamente piccolo dove i costituenti fondamentali della materia e dell'energia sono miliardi e miliardi di volte più piccole degli elettroni o dei fotoni, non vi è un solo universo, ma molti universi paralleli che possono anche venire a contatto tra loro. Shiu dice che le forme multi-dimensionali dell' extra-mondo sono troppo piccole per poter mai essere osservate attraverso gli usuali mezzi, per questo la teoria è così difficile da dimostrare. "Possiamo teorizzare qualsiasi cosa, ma poi dobbiamo essere in grado di dimostrarlo sperimentalmente. Il problema dunque è: come facciamo ?".
Il metodo sviluppato da Shiu, Insieme al suo studente Bret Underwood, si basa sull'idea che le sei dimensioni extra abbiano avuto una forte influenza sull'universo, quando questo era ancora un piccolo blocco altamente compresso di materia ed energia, nell'istante dopo il Big Bang. Non esistendo ancora una macchina del tempo per tornare a quel momento, i nostri eroi hanno usato una mappa dell'energia cosmica rilasciata dopo il Big Bang che è stata catturata da satelliti come il WMAP (Wilkinson Microwave Anisotropy Probe) della NASA essendo rimasta praticamente tale e quale, fornendo una fotografia del baby-universo. "Così come un'ombra può dare un'idea di un oggetto, questa traccia di energia cosmica può fornire un'indicazione della forma delle altre sei dimensioni presenti", spiega Shiu.
Per decifrare da questa ombra cosmica la geometria a sei dimensioni dell'extra-mondo, i nostri eroi sono partiti da due differenti tipi di geometrie matematicamente semplici, chiamate "warped throats" (gole deformate), calcolando l'ammontare di energia che in teoria corrisponderebbe all'universo descritto da ogni forma. Comparando poi le due mappe, hanno riscontrato piccole ma significative differenze. Il risultato mostra che specifici pattern di energia cosmica possono fornire indicazioni sulla geometria delle forme a sei dimensioni.
L'UNIVERSO ELEGANTE
Dal punto di vista matematico, la teoria delle stringhe suggerisce che il mondo che conosciamo non è completo, e che oltre le 4 dimensioni con cui abbiamo familiarità - il tempo e lo spazio tridimensionale - esistono sei dimensioni spaziali extra, presenti in forme geometriche occulte ad ogni singolo punto nell'universo. "Anche se gli scienziati usano potenti super-computers per cercare di visualizzare queste dimensioni extra", dice il fisico Gary Shiu, che ha condotto lo studio, "nessuno è ancora riuscito a svelarne la forma". Secondo la teoria delle stringhe, queste dimensioni extra potrebbero avere 10.000 forme possibili diverse, ognuna teoricamente corrispondente al proprio universo e alle proprie leggi fisiche. "Vorremo conoscere quella che corrisponde al nostro di universo", dice Henry Tye, fisico della Cornell University che non ha partecipato allo studio. Nel mondo fantastico delle stringhe e delle superstringhe, un mondo infinitamente piccolo dove i costituenti fondamentali della materia e dell'energia sono miliardi e miliardi di volte più piccole degli elettroni o dei fotoni, non vi è un solo universo, ma molti universi paralleli che possono anche venire a contatto tra loro. Shiu dice che le forme multi-dimensionali dell' extra-mondo sono troppo piccole per poter mai essere osservate attraverso gli usuali mezzi, per questo la teoria è così difficile da dimostrare. "Possiamo teorizzare qualsiasi cosa, ma poi dobbiamo essere in grado di dimostrarlo sperimentalmente. Il problema dunque è: come facciamo ?".
Il metodo sviluppato da Shiu, Insieme al suo studente Bret Underwood, si basa sull'idea che le sei dimensioni extra abbiano avuto una forte influenza sull'universo, quando questo era ancora un piccolo blocco altamente compresso di materia ed energia, nell'istante dopo il Big Bang. Non esistendo ancora una macchina del tempo per tornare a quel momento, i nostri eroi hanno usato una mappa dell'energia cosmica rilasciata dopo il Big Bang che è stata catturata da satelliti come il WMAP (Wilkinson Microwave Anisotropy Probe) della NASA essendo rimasta praticamente tale e quale, fornendo una fotografia del baby-universo. "Così come un'ombra può dare un'idea di un oggetto, questa traccia di energia cosmica può fornire un'indicazione della forma delle altre sei dimensioni presenti", spiega Shiu.
Per decifrare da questa ombra cosmica la geometria a sei dimensioni dell'extra-mondo, i nostri eroi sono partiti da due differenti tipi di geometrie matematicamente semplici, chiamate "warped throats" (gole deformate), calcolando l'ammontare di energia che in teoria corrisponderebbe all'universo descritto da ogni forma. Comparando poi le due mappe, hanno riscontrato piccole ma significative differenze. Il risultato mostra che specifici pattern di energia cosmica possono fornire indicazioni sulla geometria delle forme a sei dimensioni.
L'UNIVERSO ELEGANTE
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SCUOLA SCIENZE QUANTISTICHE
PERCHE' la SCUOLA di SCIENZE QUANTISTICHE
Fisica Quantistica.
Le implicazioni nella vita reale
Molti conoscono i principi basilari della fisica quantistica. Ma non tutti realizzano la portata di questa "nuova" scienza. Infatti, la fisica quantistica non riguarda solo il mondo subatomico ma anche il mondo che possiamo "vedere" e noi stessi, sia in quanto corpo ma soprattutto in quanto interiorità
Secondo le Neuroscienze:
Il Dott. Joe Dispenza e Dott.ssa Candice Pert intervengono sull'argomento
Le implicazioni nella vita reale
Molti conoscono i principi basilari della fisica quantistica. Ma non tutti realizzano la portata di questa "nuova" scienza. Infatti, la fisica quantistica non riguarda solo il mondo subatomico ma anche il mondo che possiamo "vedere" e noi stessi, sia in quanto corpo ma soprattutto in quanto interiorità
Secondo le Neuroscienze:
Il Dott. Joe Dispenza e Dott.ssa Candice Pert intervengono sull'argomento
venerdì 15 agosto 2008
Gli atleti prevedono le azioni di gioco
r.s. a cura della redazione ECplanet
Comprendere le azioni altrui è una necessità fondamentale nella vita quotidiana e diventa una sfida decisiva per gli atleti di alto livello che devono affinare la capacità di prevedere ed anticipare quelle sul campo di gioco. Ora una ricerca tutta italiana - pubblicata ieri on line sulla prestigiosa Nature Neuroscience - ha evidenziato che gli atleti d'élite sono effettivamente capaci di prevedere l'esito di un'azione in una gara della loro disciplina (ma non di altri sport). Lo studio ha preso in esame la pallacanestro e coinvolto tre gruppi di soggetti: il primo composto da giocatori di eccellenza di questo sport, il secondo da giornalisti sportivi e allenatori non praticanti, il terzo da persone che non lo avevano mai praticato. Il confronto tra i gruppi ha consentito di capire se bastava un'esperienza, anche notevole, come spettatore per riuscire a predire l'esito di un'azione di gioco oppure se questa occorreva anche saperla eseguire.
I risultati hanno mostrato che solo gli atleti sono in grado di prevedere, con altissima precisione e largo anticipo, l'andamento di tali azioni.
La ricerca ha coinvolto l'IRCCS Fondazione Santa Lucia e l'Università di Roma La Sapienza.
È stata realizzata da Salvatore Maria Aglioti in collaborazione con Cosimo Urgesi dell'IRCCS Eugenio Medea-Polo Regionale Friuli Venezia Giulia e Paola Cesari della Facoltà di Scienze Motorie dell'Università di Verona.
Il lavoro scientifico si è avvalso dei finanziamenti del Ministero dell'Università e Ricerca e del Ministero della Sanità. Lo studio si è svolto in due fasi.
Nella prima ai tre gruppi di soggetti sono stati fatti osservare filmati che mostravano tiri liberi di pallacanestro e tiri in porta nel gioco del calcetto, interrotti a diversi intervalli temporali dall'inizio del loro svolgimento. Nella metà dei casi i tiri erano dentro il canestro o nella porta e nell'altra metà fuori. Gli osservatori dovevano giudicare se il tiro sarebbe andato a segno o no. Nella seconda fase è stata utilizzata la tecnica neurofisiologica della stimolazione magnetica transcranica (TMS) che ha consentito di esaminare lo stato funzionale del sistema motorio durante l'azione osservata: sia gli atleti che gli “osservatori esperti” (giornalisti sportivi ed allenatori) hanno presentato una maggiore attività durante i tiri a canestro rispetto a quelli in porta. Tuttavia, solo negli atleti di pallacanestro il sistema motorio è risultato specificamente attivato durante l'osservazione dei tiri fuori del canestro, peraltro proprio nell'istante in cui la mano imprimeva alla palla la rotazione necessaria a determinare il successo o l'insuccesso dell'azione. Complessivamente dallo studio è emerso che il gruppo degli osservatori esperti e quello dei semplici “tifosi” hanno saputo prevedere l'andamento dei tiri solo nella loro fase finale, basandosi principalmente sulle informazioni che provenivano dall'andamento della traiettoria della palla. Gli atleti di basket, invece, sono stati in grado di predire l'esito dei tiri fin dai primi istanti dell'azione osservata: ciò ha indicato che essi basavano la loro predizione sulla lettura della cinematica del corpo dell'altro atleta che la stava compiendo. Inoltre, la capacità di giudicare l'esito del tiro a partire dai movimenti del corpo ha permesso loro di predire con elevatissima accuratezza e con molto anticipo il destino dei tiri sbagliati, come se l'errore già contenuto nella cinematica dell'azione fosse subito captato e trasformato in informazione rilevante per una predizione assai più precoce e precisa del suo esito finale. Lo studio potrà quindi avere notevoli ricadute nella scelta del tipo di allenamento e, potenzialmente, sarà in grado di ottimizzare il raggiungimento dei risultati durante un confronto agonistico ai massimi livelli, miscelando opportunamente addestramento motorio e attenta osservazione delle azioni sia dei compagni di squadra sia degli avversari.
Comprendere le azioni altrui è una necessità fondamentale nella vita quotidiana e diventa una sfida decisiva per gli atleti di alto livello che devono affinare la capacità di prevedere ed anticipare quelle sul campo di gioco. Ora una ricerca tutta italiana - pubblicata ieri on line sulla prestigiosa Nature Neuroscience - ha evidenziato che gli atleti d'élite sono effettivamente capaci di prevedere l'esito di un'azione in una gara della loro disciplina (ma non di altri sport). Lo studio ha preso in esame la pallacanestro e coinvolto tre gruppi di soggetti: il primo composto da giocatori di eccellenza di questo sport, il secondo da giornalisti sportivi e allenatori non praticanti, il terzo da persone che non lo avevano mai praticato. Il confronto tra i gruppi ha consentito di capire se bastava un'esperienza, anche notevole, come spettatore per riuscire a predire l'esito di un'azione di gioco oppure se questa occorreva anche saperla eseguire.
I risultati hanno mostrato che solo gli atleti sono in grado di prevedere, con altissima precisione e largo anticipo, l'andamento di tali azioni.
La ricerca ha coinvolto l'IRCCS Fondazione Santa Lucia e l'Università di Roma La Sapienza.
È stata realizzata da Salvatore Maria Aglioti in collaborazione con Cosimo Urgesi dell'IRCCS Eugenio Medea-Polo Regionale Friuli Venezia Giulia e Paola Cesari della Facoltà di Scienze Motorie dell'Università di Verona.
Il lavoro scientifico si è avvalso dei finanziamenti del Ministero dell'Università e Ricerca e del Ministero della Sanità. Lo studio si è svolto in due fasi.
Nella prima ai tre gruppi di soggetti sono stati fatti osservare filmati che mostravano tiri liberi di pallacanestro e tiri in porta nel gioco del calcetto, interrotti a diversi intervalli temporali dall'inizio del loro svolgimento. Nella metà dei casi i tiri erano dentro il canestro o nella porta e nell'altra metà fuori. Gli osservatori dovevano giudicare se il tiro sarebbe andato a segno o no. Nella seconda fase è stata utilizzata la tecnica neurofisiologica della stimolazione magnetica transcranica (TMS) che ha consentito di esaminare lo stato funzionale del sistema motorio durante l'azione osservata: sia gli atleti che gli “osservatori esperti” (giornalisti sportivi ed allenatori) hanno presentato una maggiore attività durante i tiri a canestro rispetto a quelli in porta. Tuttavia, solo negli atleti di pallacanestro il sistema motorio è risultato specificamente attivato durante l'osservazione dei tiri fuori del canestro, peraltro proprio nell'istante in cui la mano imprimeva alla palla la rotazione necessaria a determinare il successo o l'insuccesso dell'azione. Complessivamente dallo studio è emerso che il gruppo degli osservatori esperti e quello dei semplici “tifosi” hanno saputo prevedere l'andamento dei tiri solo nella loro fase finale, basandosi principalmente sulle informazioni che provenivano dall'andamento della traiettoria della palla. Gli atleti di basket, invece, sono stati in grado di predire l'esito dei tiri fin dai primi istanti dell'azione osservata: ciò ha indicato che essi basavano la loro predizione sulla lettura della cinematica del corpo dell'altro atleta che la stava compiendo. Inoltre, la capacità di giudicare l'esito del tiro a partire dai movimenti del corpo ha permesso loro di predire con elevatissima accuratezza e con molto anticipo il destino dei tiri sbagliati, come se l'errore già contenuto nella cinematica dell'azione fosse subito captato e trasformato in informazione rilevante per una predizione assai più precoce e precisa del suo esito finale. Lo studio potrà quindi avere notevoli ricadute nella scelta del tipo di allenamento e, potenzialmente, sarà in grado di ottimizzare il raggiungimento dei risultati durante un confronto agonistico ai massimi livelli, miscelando opportunamente addestramento motorio e attenta osservazione delle azioni sia dei compagni di squadra sia degli avversari.
giovedì 14 agosto 2008
Alieni Umani
di: Alessio Mannucci
“I grandi non possono esistere senza i piccoli ed i piccoli senza i grandi” (“Aiace”, Sofocle).
Non siamo soli su questo pianeta.
La maggiorparte delle cellule del nostro corpo non sono umane. Sono batteriche.
Siamo dei “superorganismi” che camminano.
Dato che i nostri corpi sono composti da diversi trilioni di cellule, in qualche modo potremo definirci come organismi ibridi “alieno-umani”. Dalle invisibili fibre di funghi in attesa di germogliare tra le nostre dita, ai chili di materia batterica delle nostre budella, conglomerati altamente complessi di cellule umane, batteri, funghi e virus si nutrono cannibalizzandosi a vicenda.
Non è una novità, è il paradigma sistemico emerso negli anni Sessanta, è il microcosmo endosimbiotico di Lynn Margulis. Ma è stato ribadito recentemente dall'Imperial College di Londra in una pubblicazione di Nature Biotechnology dell'ottobre 2004 che descrive minuziosamente come i microbi interagiscono con il corpo. In fondo, è proprio in base a questo criterio di super-organizzazione che si orientano oggi tutte le maggiori ricerche in campo medico-scientifico per cercare di sviluppare nuovi farmaci e nuove cure in grado di rispondere efficacemente alle risposte e variazioni della fauna microbica.
Gli scienziati si concentrano sui batteri.
Nel nostro corpo esistono più di 500 diverse specie di batteri, più di 100 trilioni di cellule. Per nostra fortuna, i batteri sono interamente commensali, dividono con noi la tavola, si cibano del nostro stesso cibo, e non procurano alcun danno. Invero, sono più che altro benefici, poiché ci proteggono dalle infezioni interagendo con il sistema immunitario.
Jeremy Nicholson, professore di chimica biologica all'Imperial College, a capo dello studio, ritiene che in base alle informazioni ricavate dalle sequenze genomiche si potrà presto capire come la produzione batterica di geni sia influenzata dalle condizioni ambientali in relazione alle malattie.
“Il genoma umano fornisce solo scarsa informazione”, dice Nicholson, “abbiamo bisogno ancora di ulteriori ricerche per sviluppare nuovi approcci al trattamento delle malattie genetiche”. Questo articolo è stato pubblicato dal periodico “Wired News” (People Are Human-Bacteria Hybrid).
Una ricerca infinita.
“I grandi non possono esistere senza i piccoli ed i piccoli senza i grandi” (“Aiace”, Sofocle).
Non siamo soli su questo pianeta.
La maggiorparte delle cellule del nostro corpo non sono umane. Sono batteriche.
Siamo dei “superorganismi” che camminano.
Dato che i nostri corpi sono composti da diversi trilioni di cellule, in qualche modo potremo definirci come organismi ibridi “alieno-umani”. Dalle invisibili fibre di funghi in attesa di germogliare tra le nostre dita, ai chili di materia batterica delle nostre budella, conglomerati altamente complessi di cellule umane, batteri, funghi e virus si nutrono cannibalizzandosi a vicenda.
Non è una novità, è il paradigma sistemico emerso negli anni Sessanta, è il microcosmo endosimbiotico di Lynn Margulis. Ma è stato ribadito recentemente dall'Imperial College di Londra in una pubblicazione di Nature Biotechnology dell'ottobre 2004 che descrive minuziosamente come i microbi interagiscono con il corpo. In fondo, è proprio in base a questo criterio di super-organizzazione che si orientano oggi tutte le maggiori ricerche in campo medico-scientifico per cercare di sviluppare nuovi farmaci e nuove cure in grado di rispondere efficacemente alle risposte e variazioni della fauna microbica.
Gli scienziati si concentrano sui batteri.
Nel nostro corpo esistono più di 500 diverse specie di batteri, più di 100 trilioni di cellule. Per nostra fortuna, i batteri sono interamente commensali, dividono con noi la tavola, si cibano del nostro stesso cibo, e non procurano alcun danno. Invero, sono più che altro benefici, poiché ci proteggono dalle infezioni interagendo con il sistema immunitario.
Jeremy Nicholson, professore di chimica biologica all'Imperial College, a capo dello studio, ritiene che in base alle informazioni ricavate dalle sequenze genomiche si potrà presto capire come la produzione batterica di geni sia influenzata dalle condizioni ambientali in relazione alle malattie.
“Il genoma umano fornisce solo scarsa informazione”, dice Nicholson, “abbiamo bisogno ancora di ulteriori ricerche per sviluppare nuovi approcci al trattamento delle malattie genetiche”. Questo articolo è stato pubblicato dal periodico “Wired News” (People Are Human-Bacteria Hybrid).
Una ricerca infinita.
Lo stress e la proteina Mapk
a cura del CNR
Istituto di biomedicina e immunologia molecolare del Cnr di Palermo e Iserm di Bordeaux
Scoperti i target molecolari Mapk e Egr1,
coinvolti nelle conseguenze comportamentali dello stress
La scoperta dell'Ibim-Cnr getta le basi per lo sviluppo di farmaci” intelligenti”, in grado di combattere depressione, ansia e tossicomanie
Si chiama Mapk e insieme al fattore proteico Egr1 ha un ruolo fondamentale nel determinare i comportamenti correlati allo stress. A individuarne la funzione è stato l'Istituto di biomedicina e immunologia molecolare (Ibim) del Cnr di Palermo che, in collaborazione con l'Iserm di Bordeaux, ha condotto una ricerca sui meccanismi molecolari alla base degli effetti degli stimoli stressanti sull'organismo.
Ma cosa significa in concreto questa scoperta ? “Molte delle conseguenze comportamentali dello stress”, spiega Francesco Di Blasi dell'Ibim-Cnr, “sono determinate dall'accrescimento dei livelli di cortisone, un ormone che attiva il recettore cellulare dei glucocorticoidi. È proprio questa variazione ormonale, ad esempio, che, in una situazione di stress acuto, facilita il processo di consolidamento della memoria associata a un'esperienza.
Ed è sempre l'alterazione di tale sostanza a provocare, nel caso di uno stimolo stressante prolungato, disturbi quali depressione, ansia e tossicodipendenza. Finora”, prosegue il ricercatore, “era noto solo che l'aumento dei glucocorticoidi modifica, attivandolo, il recettore di questo ormone. Nulla si sapeva, invece, dei meccanismi molecolari alla base di questi processi. La nostra scoperta identificando Mapk e Egr1 come target molecolari costituisce un fondamentale passo avanti nella comprensione delle dinamiche alla base delle reazioni fisiche e psicologiche legate allo stress”.
Lo studio dell'Ibim-Cnr ha utilizzato topi transgenici ai quali, tramite una sofisticata tecnologia, è stato inattivato selettivamente il gene del recettore dei glucocorticoidi nel solo ippocampo, l'area del cervello che sovrintende, tra l'altro, ai processi di apprendimento. Ne è emerso che, inibendo la proteina Mapk, viene a ridursi anche la capacità di memorizzazione indotta dai glucorticoidi. Un analogo esperimento ha inoltre dimostrato che agendo sulla stessa proteina viene a ridursi anche la tendenza alla tossicodipendenza.
Il risultato raggiunto dall'Ibim-Cnr costituisce un importante passo in avanti verso la realizzazione di terapie farmacologiche mirate, capaci di agire esclusivamente, e quindi efficacemente e con scarsi effetti collaterali, sui target molecolari coinvolti nei principali disturbi legati allo stress, in particolare ansia, depressione e tossicodipendenza. La ricerca è pubblicata nel numero di maggio della rivista “Nature neuroscience”.
Per informazioni:
Francesco Di Blasi
Phone: +39 091/6809514
Mobil: +39 338/8423101
E-mail: diblasi@ibim.cnr.it
Istituto di biomedicina e immunologia molecolare del Cnr di Palermo e Iserm di Bordeaux
Scoperti i target molecolari Mapk e Egr1,
coinvolti nelle conseguenze comportamentali dello stress
La scoperta dell'Ibim-Cnr getta le basi per lo sviluppo di farmaci” intelligenti”, in grado di combattere depressione, ansia e tossicomanie
Si chiama Mapk e insieme al fattore proteico Egr1 ha un ruolo fondamentale nel determinare i comportamenti correlati allo stress. A individuarne la funzione è stato l'Istituto di biomedicina e immunologia molecolare (Ibim) del Cnr di Palermo che, in collaborazione con l'Iserm di Bordeaux, ha condotto una ricerca sui meccanismi molecolari alla base degli effetti degli stimoli stressanti sull'organismo.
Ma cosa significa in concreto questa scoperta ? “Molte delle conseguenze comportamentali dello stress”, spiega Francesco Di Blasi dell'Ibim-Cnr, “sono determinate dall'accrescimento dei livelli di cortisone, un ormone che attiva il recettore cellulare dei glucocorticoidi. È proprio questa variazione ormonale, ad esempio, che, in una situazione di stress acuto, facilita il processo di consolidamento della memoria associata a un'esperienza.
Ed è sempre l'alterazione di tale sostanza a provocare, nel caso di uno stimolo stressante prolungato, disturbi quali depressione, ansia e tossicodipendenza. Finora”, prosegue il ricercatore, “era noto solo che l'aumento dei glucocorticoidi modifica, attivandolo, il recettore di questo ormone. Nulla si sapeva, invece, dei meccanismi molecolari alla base di questi processi. La nostra scoperta identificando Mapk e Egr1 come target molecolari costituisce un fondamentale passo avanti nella comprensione delle dinamiche alla base delle reazioni fisiche e psicologiche legate allo stress”.
Lo studio dell'Ibim-Cnr ha utilizzato topi transgenici ai quali, tramite una sofisticata tecnologia, è stato inattivato selettivamente il gene del recettore dei glucocorticoidi nel solo ippocampo, l'area del cervello che sovrintende, tra l'altro, ai processi di apprendimento. Ne è emerso che, inibendo la proteina Mapk, viene a ridursi anche la capacità di memorizzazione indotta dai glucorticoidi. Un analogo esperimento ha inoltre dimostrato che agendo sulla stessa proteina viene a ridursi anche la tendenza alla tossicodipendenza.
Il risultato raggiunto dall'Ibim-Cnr costituisce un importante passo in avanti verso la realizzazione di terapie farmacologiche mirate, capaci di agire esclusivamente, e quindi efficacemente e con scarsi effetti collaterali, sui target molecolari coinvolti nei principali disturbi legati allo stress, in particolare ansia, depressione e tossicodipendenza. La ricerca è pubblicata nel numero di maggio della rivista “Nature neuroscience”.
Per informazioni:
Francesco Di Blasi
Phone: +39 091/6809514
Mobil: +39 338/8423101
E-mail: diblasi@ibim.cnr.it
martedì 5 agosto 2008
lunedì 4 agosto 2008
La quinta dimensione
di: Oscar Bettelli
Ecco una frase suggestiva, immaginarsi qualcosa fuori dal tempo e dallo spazio, una frase che pare chiara e che esprime una ben precisa idea a prima vista non equivocabile. Eppure tutta la nostra esperienza si fonda su queste due categorie dello spazio e del tempo (Kant); cosa possiamo immaginarci senza spazio e senza tempo ? La fisica con la teoria della relatività ci dice che lo spazio e il tempo sono intrinsecamente fusi in una unica entità: lo spazio-tempo; il tempo si trasforma in spazio e viceversa, inoltre una massa gravitazionale incurva lo spazio-tempo. Se rappresentiamo il tempo con un asse cartesiano e lo spazio con un altro asse cartesiano allora lo spazio-tempo è rappresentato da un piano, ecco che un punto che non giace sul piano è fuori dallo spazio e dal tempo nella nostra rappresentazione.
Come siamo giunti a ciò ? Con una analogia. Abbiamo supposto equivalenti i rapporti che esistono tra le rette di un piano e le categorie dello spazio e del tempo, abbiamo schiacciato lo spazio in una sola dimensione, attribuito al tempo una seconda dimensione e per la natura dello spazio che conosciamo a tre dimensioni ne è scaturita una dimensione libera che ci consente di uscire dallo spazio tempo. Questo suggerisce che possa esistere una quinta dimensione che ci consentirebbe di uscire dal nostro spazio-tempo a quattro dimensioni. Ma come sperimentare questa quinta dimensione ? Con alcune congetture siamo riusciti a pensare ad una quinta dimensione, ben altra questione è sperimentarne l'esistenza.
Di più se le dimensioni sono più delle quattro che usualmente sperimentiamo, ossia tre spaziali più il tempo, perché non ipotizzare che le dimensioni possano essere dieci o anche infinite ? Noi potremmo vivere in un universo ad infinite dimensioni senza rendercene conto !
Fatto sta che la nostra esperienza si basa su un universo a quattro dimensioni, di cui una, la dimensione temporale, è percorsa in un unico senso dal passato al futuro e non viceversa.
Queste considerazioni introducono ad alcuni aspetti rivelatori di come l'uomo costruisce le proprie congetture sul mondo. L'uomo costruisce le proprie teorie osservando le proprietà e le leggi tipiche della propria esperienza e trascendendo dalle esperienze originarie cerca un diverso campo di applicazione ragionando per analogia. La cosa sorprendente è che spesso questo metodo funziona, leggi e rapporti che sono validi in un certo ambito risultano essere validi anche in un ambito diverso e generalmente più ampio.
Tutto questo non significa che ciò che vale per il piccolo valga anche per il grande, la monade e l'universo, questo in generale non è vero; è vero però che leggi osservate nel piccolo sono ottimi suggerimenti di indagine che la mente esploratrice utilizza per afferrare le leggi più generali in un ambito più ampio, fatte le opportune distinzioni.
Come costruisce le proprie certezze una mente indagatrice ?
Innanzitutto è l'esperienza che costruisce la base delle teorie che verranno in seguito elaborate e con cui si confronteranno continuamente.
La nostra esperienza sensibile si fonda su cinque sensi, ma di indubbio peso è sicuramente la parola: noi generalmente ci fidiamo e prendiamo come veritiero ciò che gli altri ci vogliono insegnare; è un atteggiamento naturale per individui sociali quali noi siamo prestar fede agli altrui discorsi ed alle altrui esperienze. A volte però assumiamo un atteggiamento incredulo e vogliamo verificare personalmente ciò che ci viene raccontato.
Se non crediamo che lo spazio-tempo si incurvi in presenza di masse gravitazionali, allora cominciamo a studiare la teoria della relatività con tutte le argomentazioni che gli studiosi hanno messo a punto per dimostrarlo, e quand'anche fossimo giunti ad afferrare tutte le sfumature dell'argomento e avessimo verificato gli esperimenti effettuati a favore, anche in tal caso saremmo sempre liberi di non accettare la curvatura dello spazio-tempo come verità assoluta ed immutabile. D'altra parte non avremmo tempo a sufficienza per verificare nei minimi dettagli tutto quanto ci viene continuamente insegnato nel corso di una vita, per cui molto spesso ci fidiamo. Ma supponiamo che qualcuno venga a dirci che è stato nella quinta dimensione, improvvisamente scattano in noi una serie di meccanismi di incredulità e diffidenza, vorremmo essere portati a toccare con mano una simile esperienza così lontana dalle esperienze ordinarie a cui siamo abituati.
Supponiamo che ci venga risposto che occorre una lunga preparazione psicologica e comportamentale che richiede parecchio tempo e impegno. In tal caso saremmo probabilmente propensi a pensare che chi dice di aver fatto una simile esperienza sia un mistico visionario e non vi presteremmo fede. Supponiamo invece che ci venga risposto di seguire il nostro curioso interlocutore su una astronave spaziale che viaggerà a velocità prossime a quelle della luce, in tal caso ci immaginiamo proiettati in una condizione di esistenza talmente diversa dalla solita che probabilmente ci avventureremmo al seguito del nostro guru prestandogli fede; e saremmo convinti che il nostro viaggio ci porterà fuori dallo spazio e dal tempo. Eppure in tutto ciò l'unica differenza è la fede.
Ecco una frase suggestiva, immaginarsi qualcosa fuori dal tempo e dallo spazio, una frase che pare chiara e che esprime una ben precisa idea a prima vista non equivocabile. Eppure tutta la nostra esperienza si fonda su queste due categorie dello spazio e del tempo (Kant); cosa possiamo immaginarci senza spazio e senza tempo ? La fisica con la teoria della relatività ci dice che lo spazio e il tempo sono intrinsecamente fusi in una unica entità: lo spazio-tempo; il tempo si trasforma in spazio e viceversa, inoltre una massa gravitazionale incurva lo spazio-tempo. Se rappresentiamo il tempo con un asse cartesiano e lo spazio con un altro asse cartesiano allora lo spazio-tempo è rappresentato da un piano, ecco che un punto che non giace sul piano è fuori dallo spazio e dal tempo nella nostra rappresentazione.
Come siamo giunti a ciò ? Con una analogia. Abbiamo supposto equivalenti i rapporti che esistono tra le rette di un piano e le categorie dello spazio e del tempo, abbiamo schiacciato lo spazio in una sola dimensione, attribuito al tempo una seconda dimensione e per la natura dello spazio che conosciamo a tre dimensioni ne è scaturita una dimensione libera che ci consente di uscire dallo spazio tempo. Questo suggerisce che possa esistere una quinta dimensione che ci consentirebbe di uscire dal nostro spazio-tempo a quattro dimensioni. Ma come sperimentare questa quinta dimensione ? Con alcune congetture siamo riusciti a pensare ad una quinta dimensione, ben altra questione è sperimentarne l'esistenza.
Di più se le dimensioni sono più delle quattro che usualmente sperimentiamo, ossia tre spaziali più il tempo, perché non ipotizzare che le dimensioni possano essere dieci o anche infinite ? Noi potremmo vivere in un universo ad infinite dimensioni senza rendercene conto !
Fatto sta che la nostra esperienza si basa su un universo a quattro dimensioni, di cui una, la dimensione temporale, è percorsa in un unico senso dal passato al futuro e non viceversa.
Queste considerazioni introducono ad alcuni aspetti rivelatori di come l'uomo costruisce le proprie congetture sul mondo. L'uomo costruisce le proprie teorie osservando le proprietà e le leggi tipiche della propria esperienza e trascendendo dalle esperienze originarie cerca un diverso campo di applicazione ragionando per analogia. La cosa sorprendente è che spesso questo metodo funziona, leggi e rapporti che sono validi in un certo ambito risultano essere validi anche in un ambito diverso e generalmente più ampio.
Tutto questo non significa che ciò che vale per il piccolo valga anche per il grande, la monade e l'universo, questo in generale non è vero; è vero però che leggi osservate nel piccolo sono ottimi suggerimenti di indagine che la mente esploratrice utilizza per afferrare le leggi più generali in un ambito più ampio, fatte le opportune distinzioni.
Come costruisce le proprie certezze una mente indagatrice ?
Innanzitutto è l'esperienza che costruisce la base delle teorie che verranno in seguito elaborate e con cui si confronteranno continuamente.
La nostra esperienza sensibile si fonda su cinque sensi, ma di indubbio peso è sicuramente la parola: noi generalmente ci fidiamo e prendiamo come veritiero ciò che gli altri ci vogliono insegnare; è un atteggiamento naturale per individui sociali quali noi siamo prestar fede agli altrui discorsi ed alle altrui esperienze. A volte però assumiamo un atteggiamento incredulo e vogliamo verificare personalmente ciò che ci viene raccontato.
Se non crediamo che lo spazio-tempo si incurvi in presenza di masse gravitazionali, allora cominciamo a studiare la teoria della relatività con tutte le argomentazioni che gli studiosi hanno messo a punto per dimostrarlo, e quand'anche fossimo giunti ad afferrare tutte le sfumature dell'argomento e avessimo verificato gli esperimenti effettuati a favore, anche in tal caso saremmo sempre liberi di non accettare la curvatura dello spazio-tempo come verità assoluta ed immutabile. D'altra parte non avremmo tempo a sufficienza per verificare nei minimi dettagli tutto quanto ci viene continuamente insegnato nel corso di una vita, per cui molto spesso ci fidiamo. Ma supponiamo che qualcuno venga a dirci che è stato nella quinta dimensione, improvvisamente scattano in noi una serie di meccanismi di incredulità e diffidenza, vorremmo essere portati a toccare con mano una simile esperienza così lontana dalle esperienze ordinarie a cui siamo abituati.
Supponiamo che ci venga risposto che occorre una lunga preparazione psicologica e comportamentale che richiede parecchio tempo e impegno. In tal caso saremmo probabilmente propensi a pensare che chi dice di aver fatto una simile esperienza sia un mistico visionario e non vi presteremmo fede. Supponiamo invece che ci venga risposto di seguire il nostro curioso interlocutore su una astronave spaziale che viaggerà a velocità prossime a quelle della luce, in tal caso ci immaginiamo proiettati in una condizione di esistenza talmente diversa dalla solita che probabilmente ci avventureremmo al seguito del nostro guru prestandogli fede; e saremmo convinti che il nostro viaggio ci porterà fuori dallo spazio e dal tempo. Eppure in tutto ciò l'unica differenza è la fede.
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coscienza,
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Fisica quantistica
venerdì 1 agosto 2008
Il farmaco «blocca Alzheimer»
Fonte:www.corriere.it/salute
a cura di Alessandra Farkas
Lo studio sul Remenber, un medicinale che agisce contro la proteina «tau»
Placche amiloidi (color ocra) nel morbo di Alzheimer (Grazia Neri)
NEW YORK - E' il primo farmaco al mondo in grado di bloccare la progressione dell'Alzheimer. Si tratta di «Rember»: la miracolosa sostanza in fase ancora sperimentale messa a punto dagli studiosi dell'Università di Aberdeen, in Scozia (per conto della TauRx Therapeutics di Singapore) che l'hanno presentata durante il convegno internazionale sull'Alzheimer che si è svolto ieri a Chicago. L'entusiasmo con cui è stata accolta dagli addetti ai lavori è stato corale e comunque proporzionale alla gravità di un morbo che affligge 26 milioni di persone in tutto il mondo. «Si tratta dei primissimi risultati davvero positivi nella lotta per fermare il declino mentale dei malati», ha detto Marcelle Morrison-Bogorad, direttore della ricerca sull'Alzheimer presso il Naional Institute on Aging. «E' fantastico». Il Remer, attualmente al secondo di tre livelli di sperimentazione, agisce contro la formazione di una specifica proteina, chiamata Tau, che colpisce il cervello dei malati di Alzheimer. La sperimentazione condotta su 321 pazienti ha mostrato una differenza dell'81% del tasso di perdita della loro facoltà mentali, rispetto a malati a cui non è stato somministrato. Gli studiosi hanno sottolineato la necessità di nuove sperimentazioni e il farmaco potrebbe arrivare sul mercato solo nel 2012.
a cura di Alessandra Farkas
Lo studio sul Remenber, un medicinale che agisce contro la proteina «tau»
Placche amiloidi (color ocra) nel morbo di Alzheimer (Grazia Neri)
NEW YORK - E' il primo farmaco al mondo in grado di bloccare la progressione dell'Alzheimer. Si tratta di «Rember»: la miracolosa sostanza in fase ancora sperimentale messa a punto dagli studiosi dell'Università di Aberdeen, in Scozia (per conto della TauRx Therapeutics di Singapore) che l'hanno presentata durante il convegno internazionale sull'Alzheimer che si è svolto ieri a Chicago. L'entusiasmo con cui è stata accolta dagli addetti ai lavori è stato corale e comunque proporzionale alla gravità di un morbo che affligge 26 milioni di persone in tutto il mondo. «Si tratta dei primissimi risultati davvero positivi nella lotta per fermare il declino mentale dei malati», ha detto Marcelle Morrison-Bogorad, direttore della ricerca sull'Alzheimer presso il Naional Institute on Aging. «E' fantastico». Il Remer, attualmente al secondo di tre livelli di sperimentazione, agisce contro la formazione di una specifica proteina, chiamata Tau, che colpisce il cervello dei malati di Alzheimer. La sperimentazione condotta su 321 pazienti ha mostrato una differenza dell'81% del tasso di perdita della loro facoltà mentali, rispetto a malati a cui non è stato somministrato. Gli studiosi hanno sottolineato la necessità di nuove sperimentazioni e il farmaco potrebbe arrivare sul mercato solo nel 2012.
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